La Lectio Magistralis del Presidente Napolitano

Ecco il testo della Lectio Magistralis tenuta dal Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, sabato 1 ottobre a Classe Democratica, la Scuola nazionale di formazione del PD. Un contributo, come vedrete, davvero molto prezioso e di altissimo livello, che il Presidente Napolitano ha scritto specificatamente per Classe Democratica.

 

PROFILO DELL’EVOLUZIONE POLITICO-ISTITUZIONALE DELL’ITALIA LIBERA E REPUBBLICANA
Scuola di formazione PD
Roma, 1 ottobre 2016

 

Vi ringrazio per l’invito rivoltomi e per l’occasione che mi è stata offerta. L’occasione di una testimonianza e di una riflessione su vicende in larga misura da me direttamente vissute. Si tratta di vicende che voi certamente conoscete nelle loro grandi linee, e che io ripercorrerò, non esaustivamente, dandone una interpretazione anche attraverso opinioni discutibili e con accenti personali.

1. Premessa

Già nella formulazione del tema di questa lezione ho voluto enfatizzare una peculiarità italiana rispetto al resto d’Europa, cioè lo strettissimo rapporto e l’influenza reciproca tra vicende della politica e vicende istituzionali, nell’Italia liberatasi dal fascismo e impegnata a darsi una democrazia costituzionale. Punto di partenza fu lo stabilirsi di un quadro di unità nazionale fin dal 1944, grazie alla lungimiranza di una classe dirigente fondata su molteplici componenti:
– la componente pre-fascista liberale,
– la componente dell’anti-fascismo nella clandestinità, nelle carceri e al confino durante il regime,
– la componente nuova, e decisiva per il futuro, rappresentata dalla generazione che negli ultimi anni del fascismo si era attivamente orientata verso ideali di libertà e di progresso democratico.
Nonostante questo fondamentale sforzo comune, si sarebbero tuttavia presto fatti sentire condizionamenti antichi e nuovi, tali da rendere difficile il proseguimento di una larga unità politica già nell’Assemblea Costituente, dove pure essa resse fino alla fine, ma soprattutto, oltre la conclusione positiva di tale esperienza.
Sul singolare e accidentato percorso democratico hanno pesato in realtà vecchie e nuove peculiarità italiane. La prima risalente allo stesso processo di formazione dell’unità statuale italiana. E cioè il peso della Chiesa di Roma e dei rapporti tra Chiesa e Stato, e, a partire dalla Resistenza, l’apparire sulla scena politica di un partito comunista come grande forza politica di massa.
Entrambi questi fattori si intrecciarono e incisero nel confronto in Assemblea Costituente – come chiarirò più avanti – fino a concorrere alla crisi della collaborazione tra i partiti anti-fascisti e quindi alla rottura del maggio 1947. Contraddizioni e contrasti incisero già sulla fase finale dei lavori dell’Assemblea Costituente, in special modo sulle scelte relative alla seconda parte della Carta.
C’è da considerare attentamente il peso determinante e la complessità delle relazioni tra Democrazia Cristiana e Partito comunista italiano. Furono due forze di decisiva influenza per disegnare i principi e gli assetti costituzionali. Erano rilevanti sia le convergenze e le “affinità”, sia gli antagonismi tra essi. Erano due partiti portatori di valori generali e di forti visioni universalistiche, addirittura di “due fedi” in competizione (colpisce oggi rievocare espressioni di Togliatti, che chiedeva rispetto per “la nostra fede”).

2. Gli assetti istituzionali disegnati dall’Assemblea Costituente.

I lavori dell’Assemblea Costtituente furono guidati dai valori dell’anti-fascismo e della Resistenza : diritti di libertà, principi di progresso sociale, obbiettivi programmatici di rinnovamento del paese. Le grandi molle dell’unità, al vertice del mondo politico e nei più ampi strati popolari furono le esperienze tragiche della guerra, sconfitta, occupazione tedesca, Italia divisa in due. E altra decisiva molla unitaria fu l’impegno corale per ricostruire nella solidarietà l’Italia semi-distrutta. “Fu questo che tenne unito il paese” (P.Scoppola).
Tutto ciò si riflette nel processo di elaborazione della Carta. Ma fermentavano nel contempo motivi di contrasto: il dopo-Resistenza nelle zone rosse (riflesso di un mito insurrezionale con cui si scontravano e facevano i conti, non senza difficoltà, la politica unitaria e la “via democratica al socialismo” di Togliatti). Si manifestavano insieme motivi di contrasto sociale e internazionale: riserve e opposizioni che venivano dai vertici ecclesiastici, come da Confindustria e da ambienti rappresentativi americani.
Dalla rottura del maggio ’47 si salva la continuità dei lavori dell’Assemblea Costituente, ma ormai si delinea la imminente sfida e battaglia frontale tra DC e sinistra: l’avvicinarsi delle elezioni per il Parlamento nella primavera del 1948. Emergono gli antagonismi sul piano politico interno, ma rafforzati e sovrastati dall’avvio della guerra fredda, che fa del primo voto per il risorto Parlamento italiano il banco di prova di una “scelta di campo” tra Est e Ovest.
L’incertezza e la preoccupazione circa l’esito del voto, particolarmente avvertite dai vertici di DC e PCI, conducono a una convergenza in Assemblea Costituente nel senso di contrassegnare la seconda parte della Carta in termini di “iper-garantismo” (G. Dossetti).

3. Il profilo politico istituzionale dell’Italia si fa anomalo.

A partire dal risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, il profilo dell’evoluzione politico-istituzionale dell’Italia si fa anomalo rispetto al resto d’Europa. E si apre un periodo lungo, fino a raggiungere i quattro decenni e oltre: vince la “scelta di campo” occidentale e pro-europea che solo vent’anni dopo si avvia ad essere condivisa in Italia dal PCI, preceduto dal PSI. I paesi democratici europei, e non solo i sei fondatori del processo comunitario, crescono in un quadro di stabilità politica e anche costituzionale (solo in Francia rimane aperta ancora più di dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale una “questione costituzionale”, che sarà sciolta con l’avvento di De Gaulle e l’adozione di una radicale riforma in senso presidenzialistico).
L’Italia rappresenterà l’anomalia della massima instabilità di governo e di una lunga e sterile ricerca di revisione costituzionale; si pagano le debolezze di fondo dell’ordinamento della Repubblica sancite nella definizione della seconda parte della Costituzione. Basti ricordare il fallimento dell’odg Perassi; il compromesso gravemente “pasticciato” del bicameralismo paritario; il ruolo minore dell’esecutivo negli equilibri costituzionali; un sistema elettorale proporzionale destinato a durare solo in Italia oltre 40 anni quasi come “proiezione naturale” della Costituzione del 1948.
Il profilo politico dell’Italia, modellato dagli anni del governo De Gasperi e della sua strategia di alleanze “centriste”, si caratterizza per un orientamento conservatore-moderato ma non privo di connotazioni popolari e riformiste. Quella della DC si rivela una egemonia di lungo periodo, ma affidata, dopo la sconfitta e la morte di De Gasperi, a una dialettica e lotta interna tra correnti, che contribuiscono a produrre instabilità di governo. La gestione del potere statale si traduce per diversi aspetti si realizza un “sistema di potere” della DC, secondo la formula dell’opposizione di allora (e su ciò tornerò).
Alla secca sconfitta del 18 aprile il PCI reagisce non con l’abbandono ma con una riconferma netta di lealtà democratica e – ormai senza prospettive ravvicinate di accesso al governo – con una opposizione misurata e propositiva. Ma in quel partito si producono e verranno poi alla luce contraddizioni e vere e proprie “doppiezze” a questo riguardo.

4. La Repubblica dei partiti. Sue tare e sua crisi.

L’Italia risorta a democrazia con il determinante apporto di partiti antichi e nuovi, si fa “Repubblica dei partiti”.
Ma prima di inoltrarmi su questo cruciale terreno vale la pena di vedere come la politica era stata vissuta, a partire della caduta del fascismo e della Liberazione, da grandi masse di cittadini e di popolo. Grandi ideali di diversa matrice e partecipazione attiva. Passioni autentiche, idealità come quelle del cattolicesimo politico e, tra ingenuità e ambiguità, del socialismo, che viene tra i comunisti ancorato a un presunto “socialismo realizzato” (secondo un fuorviante riferimento al modello sovietico).
In effetti, grandi e schietti valori ideali però via via si irrigidiscono in opposti poli ideologici e addirittura in “appartenenze separate”. Queste – nel passaggio dalla collaborazione al conflitto tra i partiti, innanzitutto i maggiori – inficiano il senso di appartenenza comune alla società e allo Stato nazionale e offuscano la visione dell’interesse generale del paese.
La principale tara della Repubblica dei partiti negli anni del suo cristallizzarsi è costituita dal non dar luogo a una democrazia dell’alternanza. Diventa per lungo tempo “democrazia bloccata”, fondata sulla “conventio ad excludendum” nei confronti del PCI. Richiamo la vostra attenzione su queste formule che hanno nel passato sintetizzato realtà critiche di non lieve periodo nella politica italiana. Quella che veniva esclusa da ogni possibilità di accesso al governo era la maggiore forza di opposizione, appunto il PCI, la cui influenza elettorale cresce fino al 30% ed oltre, mentre cresce la sua capacità di incidenza nella lotta sociale, nella sfera culturale, nella competizione politica e parlamentare.
Nella polemica politica e politologica, i vizi della Repubblica dei partiti vengono in particolar modo individuati nell’assoggettamento delle istituzioni ai partiti stessi, con logiche di occupazione del potere ovvero di gestione dello Stato – a cominciare dalla pubblica amministrazione – largamente in funzione del rafforzamento di interessi di partito. Il fenomeno, che genera clientelismo e corruzione, fa capo ovviamente soprattutto alla DC, anche se non ne sono del tutto indenni i partiti di opposizione che governano al livello regionale e locale.
Si diffonde la denuncia della partitocrazia. Gravi equivoci e possibili distorsioni che essa presenta : è di lì che in qualche modo parte in Italia l’onda lunga dell’anti-politica e della negazione, in particolare, del ruolo dei partiti politici.
In sostanza il vero rimedio alle degenerazioni della Repubblica dei partiti, la vera risposta alla sua crisi stavano nel superamento delle preclusioni ad una competizione politica pienamente libera, nell’avvio di una democrazia dell’alternanza. Stavano in definitiva nel cambiamento politico dei due principali partiti e in una revisione costituzionale che superasse le fatali debolezze dell’ordinamento della Repubblica. E tutto questo precipita nel biennio 1992-93.
5. La svolta del 1992-1993 e i suoi precedenti.

La crisi innescata dagli scandali di Tangentopoli è di fatto logoramento del consenso verso il sistema politico, verso i partiti di governo, per l’incapacità di rinnovarsi rispondendo alle trasformazioni in atto nella società (che non starò qui a richiamare neppur sommariamente), rispondendo a nuove istanze della società civile e a nuovi movimenti di opinione. Le forze politiche di governo pagano in definitiva per la mancanza di coraggio nell’aprire a ipotesi inedite di ri-articolazione della scena politica e della competizione per la conquista della maggioranza.
Eppure, si era manifestato a più riprese il segno dei tempi: e lo mostrarono l’avvicinamento tra DC e socialisti, lo spostamento del baricentro delle alleanze di governo verso il PSI, il succedere, negli anni ’60, del centro-sinistra alle datate tradizioni centriste. Ma quelle novità, la stessa esperienza di centro-sinistra si bruciarono presto fra divergenze sugli indirizzi di governo e conflittualità crescente.
E bisogna anche dire che l’avvio della rottura dei vecchi schemi e di un’ormai ineludibile transizione verso un clima e quadro politico diverso, si ebbe già negli anni 1976-79, con una maggioranza di programma ad ampio spettro a sostegno di un monocolore DC. Fu una scelta resa drammaticamente obbligata dalle emergenze di un’inflazione sfuggita ad ogni controllo e di un’offensiva terroristica destabilizzante. L’esperienza non fu né semplice né indolore per la sinistra che veniva dall’opposizione, e personalmente per quanti ne furono, come me, protagonisti. Ad esempio, furono serie le incomprensioni e tensioni con il movimento sindacale, pur guidato con grande forza e lungimiranza da Luciano Lama.
Chiusa quella parentesi, seguirono anni di ristagno di ogni spinta rinnovatrice. La transizione verso una democrazia compiuta ebbe infine un suo inizio esplicito, per così dire registrato storicamente con il dissolvimento della continuità quarantennale dell’azione di governo della DC e dei suoi alleati, e cioè con la fine della legislatura 1987-1992.

6. Necessità di giudizi equanimi sul lungo periodo dell’egemonia democristiana.

Anche chi abbia con ottime ragioni ma non senza errori e forzature animato in quel tempo le battaglie dell’opposizione di sinistra, deve andare al di là di indifferenziate formule liquidatorie, sia nei confronti della DC sia nei confronti dei partiti suoi alleati.
La DC ha comunque rappresentato un arco eccezionalmente ricco di posizioni e di personalità. E’ stato un insieme composito, contraddittorio tale da sfuggire a una definizione univoca. Ma non possiamo trascurare gli apporti che sono venuti da posizioni e uomini talvolta perdenti nel confronto interno di partito, ma impegnati non indegnamente nell’opera di governo e portatori di genuina cultura e di pensiero innovativo. Se dovessi fare un solo nome, farei quello di Nino Andreatta, e non è difficile immaginare come gli si potrebbe mettere accanto qualche nome, all’opposto, campione di ambiguità e anche di gravi danni all’interesse pubblico. Non si può quindi ridurre la realtà storica e l’operato della DC a puro “sistema di potere”.
Ed egualmente i partiti alleati della DC nella lunga fase del centrismo non furono semplicemente portatori d’acqua o gruppi di vertice “vassalli della DC” secondo giudizi sommari tipici di un’opposizione esclusa dall’accesso al governo. Quei partiti, e le loro personalità dirigenti, ebbero una loro dignità. E uno di essi, il Partito Repubblicano Italiano, raccolse una importante tradizione politica e di pensiero come quella azionista e fu punto di riferimento per un’opinione democratica sensibile ad esigenze di riforma e a valori di rigore morale nella guida del paese.
Non c’è poi bisogno di sottolineare quanto importante fu il contributo del Partito Socialista nella fase del centro-sinistra alla ideazione e promozione di approcci riformisti anche e in particolare sul piano sociale. Prevalse però nel rapporto con la DC una logica di competizione nella gestione del potere e per la guida del governo.

7. La legislatura della transizione

Nel 1992-1993 saltano i vecchi equilibri politici pluridecennali, si sceglie la via inedita e densa di significati della formazione di un governo affidato per la prima volta nella storia dell’Italia unita a un non politico e non parlamentare, Carlo Azeglio Ciampi, figura di grande rigore morale accoppiato ad un’eccezionale competenza e influenza guadagnata in una nostra peculiare istituzione, qual è la Banca d’Italia. E quasi a sottolineare e a sfidare la portata di questa svolta, si fa sentire in quei mesi perfino la minaccia dell’offensiva stragista della mafia, rappresentante dell’antico flagello italiano della criminalità organizzata.
Durante il governo Ciampi si adottano due coraggiose, fortemente innovative, riforme elettorali per i Comuni e per il Parlamento. Ma non passano misure di revisione costituzionale: il progetto di riforma elaborato dalla Commissione bicamerale De Mita-Iotti non giunge all’esame delle Camere per il brusco scioglimento di un Parlamento ridotto quasi nell’impossibilità di funzionare. Una transizione, dunque, incompiuta.
PSI e DC entrano in un declino irreversibile. Sorge, come nuova aggregazione del cattolicesimo politico il PPI che raccoglierà una modesta quota dell’eredità elettorale della DC.
Dal canto suo il PCI fa i conti, sia pur tra contrasti e ancora debolmente prima del fatale 1989, ma infine, nettamente, subito dopo la caduta del muro di Berlino. Si scioglie e la maggioranza delle sue forze assume nuove sembianze e nuove prospettive. Dapprima con la nascita del PDS e poi con le sue successive versioni partitiche. Ma non mi addentro in questa storia piuttosto tortuosa.
Prima della conclusione anticipata della legislatura ’92-’94 il panorama politico assume connotazioni nuove anche a destra. Nell’Italia repubblicana era stato sempre presente, in Parlamento e nel paese, un partito di destra originariamente neo-fascista. Adesso, dinanzi alla nuova caratterizzazione di forze eredi della DC o di un suo importante filone, e del PCI, al loro allearsi e al baldanzoso farsi avanti del PDS, per la prima volta si gettano le basi di una destra democratica, o aspirante a collocarsi nel giuoco di una competizione politica democratica. Ed è l’invenzione di Forza Italia, insieme con la singolarissima “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.
Ma già nelle elezioni del 1992 aveva fatto rumorosamente ingresso in Parlamento come forza politica nazionale il nuovo soggetto, Lega Nord, il cui secessionismo e preteso federalismo viene contrastato, anche dalla sinistra, con non poche incertezze, confusioni e discutibili concessioni.
In tale complessivo contesto, matura l’esigenza di superare la distinzione tra partito popolare, cui succederà la Margherita, e l’ultima delle formazioni politiche figliate dal PDS. Si dà vita alla originale esperienza dell’Ulivo e quindi si giunge alla costituzione del PD.
Con la legge elettorale Mattarella si erano d’altronde create le condizioni, finalmente, per una competizione su cui non gravasse più alcuna preclusione e per un’alternanza nella guida del paese.
L’Italia stava uscendo dunque dalle sue anomalie, e si collocava nel solco delle altre democrazie europee? No, in questo senso la strada da percorrere sarebbe ancora rimasta lunga. Un serio politico e studioso, guardando all’arco temporale e politico che va dal governo Andreotti (1989) ovvero dal declino finale di quella che non amo chiamare “prima Repubblica” ma piuttosto prima fase della storia repubblicana, fino allo scioglimento anch’esso anticipato del Parlamento nel 1996, ha scritto di “otto governi e tre legislature in otto anni“. Egli indica in quello stesso saggio i dati che documentano il fatale aggravamento del peso del debito pubblico, peraltro insieme con l’estrema crescita della pressione fiscale. Furono i danni della perdurante fibrillazione politica e instabilità di governo che da decenni fragilizzavano la nostra democrazia. E quei dati stanno a dimostrare come si trattasse di anomalie che non toccavano solo le nostre istituzioni ma insieme, e profondamente, il corso della nostra vita economia e sociale.

8. L’intreccio delle vicende italiane con l’avanzare dell’integrazione europea.

A partire dagli anni ’60, quel che si decide e accade in Italia è dentro un contesto che non mi era possibile ripercorrere qui, ma dal quale è impossibile prescindere per valutare fattori di progresso per il nostro paese, contributi positivi dell’Italia alla costruzione europea, nostre ambiguità, inadempienze e debolezze.
E’ un intreccio che forse non si è mai analizzato bene. Ma ormai il nostro impegno in Europa, e innanzitutto per il superamento della grave crisi attuale dell’Unione, è parte essenziale del governare l’Italia. E questo è, del tutto aperto dinanzi a noi, il cimento del PD.

9. Dalla nascita del PD a oggi, guardando al domani.

Sappiamo come nacque nel 2007 un solo partito dai due pre-esistenti di diversa origine storica. Si ritenne che anche l’idea di una federazione tra essi non fosse più la soluzione adeguata. Non mancò una elaborazione impegnata, che traeva certamente linfa dall’esperienza già molto avanzata in senso unificante dell’Ulivo. Pietro Scoppola, che fu tra gli storici e tra gli innovatori politici più importanti, e non solo nell’ambito del movimento e del pensiero cattolico democratico, in un discorso di poco precedente la sua dolorosa scomparsa, espresse riserve e preoccupazioni per il modo in cui il Partito Democratico stava nascendo e si presentava pubblicamente con un suo “manifesto” programmatico. Spiegò perché non credesse “alla formula dei riformismi che si incontrano” in quanto pensava a “una identità comune più ampia, più comprensiva”. Nel senso di ancorare il PD alla prospettiva del “compimento del processo fondativo della democrazia”, a cominciare dalle riforme istituzionali rimaste ancora bloccate. E volle sottolineare che “il PD ha bisogno del popolo di sinistra ma non delle ideologie né tantomeno delle nostalgie comuniste, e ha bisogno del popolo cattolico … avendo di vista la ricostruzione etica del paese.”
Ho voluto citarvi queste parole problematiche di un pioniere dell’Ulivo e del Partito Democratico, perché penso si debba, senza cedere a tentazioni auto-celebrative, discutere ancora a fondo di quel che occorre fare perché il Partito Democratico risulti convincente come forza di sinistra non ristretta e come moderno polo di aperta e larga aggregazione democratica. E anche quel che occorre ancora perché il PD risulti vitale democraticamente e attivo nel promuovere e guidare partecipazione popolare. Badate, riuscire in questo sforzo non risponderà solo all’interesse del PD, ma costituirà la prova migliore che il ruolo dei partiti politici non è esaurito, che il loro rinnovamento è possibile nell’interesse della democrazia.
Governare l’Italia nell’Europa in crisi è compito davvero molto arduo, e anche dall’opposizione bisognerebbe mostrare di saperlo. Antiche e dure questioni sono rimaste irrisolte ulteriormente aggravandosi; si sono accumulati ritardi pesanti nello sciogliere con riforme non solo costituzionali remore fatali per la modernizzazione e l’efficienza competitiva del sistema Italia; siamo alle prese con punti deboli mostrati nel rapporto con le istituzioni europee e con le difficoltà senza precedenti del processo di integrazione. E dunque, il nostro comune domani deve portare il segno della determinazione riformatrice ed europeistica.
E’ giunto davvero il momento del superamento di anomalie che – trascinandosi così a lungo nel tempo – hanno segnato l’evoluzione politico-istituzionale dell’Italia.
La riflessione può far leva sull’esperienza preziosa di questi anni di responsabilità nel governo del paese. Ma deve andare al di là di ciò misurandosi con le molteplici lezioni di un passato storico relativamente recente, quello dei decenni dell’Italia repubblicana. Le sue diverse fasi, che ho cercato di ripercorrere, ci dicono in quali errori non ricadere ma anche a quali apporti e risultati positivi richiamarci. Perché non tutto è cominciato nel febbraio 2014, e non tutto è da rimuovere. Abbiamo il dovere dell’analisi critica ma anche del rispetto, per importanti aspetti, di quanto ha preceduto le attuali giovani generazioni del PD, passando attraverso la difficile esperienza di quei governi che a partire dal ’96 si sono mossi su basi di centro-sinistra e nella prospettiva che infine è sfociata – con il PD in posizione di forza maggioritaria determinante – nel governo Renzi.
Determinazioni riformatrici, ho detto, a cominciare dalla riforma costituzionale sottoposta a referendum che abbiamo tutte le ragioni per rappresentare nella sua valenza innovativa. E dobbiamo collocarla – a oltre vent’anni dai progetti non portati a compimento delle bicamerali De Mita-Iotti e ancor più D’Alema – nella visione via via tracciata e perseguita da uomini di cultura democratica e progressista. E qui è d’obbligo evocare il nome di Leopoldo Elia e della sua straordinaria ricerca e battaglia per “una nuova forma di governo parlamentare”.
Così anche abbiamo da confrontarci con gli alti e bassi del ruolo espresso dall’Italia in 50 anni di costruzione europea, sapendo che ancor oggi decisivo è il metodo della tenace tessitura di alleanze in seno alle istituzioni dell’Unione, in special modo quelle sovranazionali, per sventare il rischio di un catastrofico dissolvimento.
A voi faccio appello affinché il contributo che vi si chiede si sostanzi della indispensabile passione. La politica è stata, nella nuova Italia libera e democratica anche questo: partecipazione non solo razionale ma ricca moralmente ed emotivamente. Lo è stata in Italia, la mia generazione e altre successive ne hanno fatto esperienza – e può essere ancora questo. Mi rifiuto di credere che senza la carica ideologica e finanche fideistica del passato, essa sia condannata a freddo calcolo competitivo, tecnica di governo e mero esercizio del potere da parte di vertici ristretti. Vorrei che voi credeste al significato per me conclusivo che assume questo appello.

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