Lo scorso 23 settembre, in occasione del Centenario della nascita di Aldo Moro, Giuseppe Vacca ha tenuto una relazione dal titolo: “La lezione di Aldo Moro”, che mi fa molto piacere condividere e contribuire a diffondere nella convinzione che sia un utile strumento di conoscenza.
CELEBRAZIONE DEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ALDO MORO
La lezione di Aldo Moro
Discorso dell’on. prof. Giuseppe Vacca
Roma, 23 settembre 2016
Il punto da cui si diparte la lezione di Aldo Moro è la sua visione dello Stato democratico, formatasi fra la caduta del fascismo e la stesura della Costituzione. Alla caduta del fascismo Moro aveva già affrontato il problema della trasformazione dello “Stato autoritario di masse” – secondo la definizione di Alfredo Rocco – in uno Stato democratico ispirato ai valori del personalismo cristiano. Tuttavia l’esperienza della Costituente fu decisiva per la definizione non solo dei suoi istituti giuridici, ma anche delle forze politiche, dei movimenti sociali e delle correnti ideali che avrebbero potuto realizzarlo. Quando, il 10 settembre del ’46, fu raggiunto l’accordo sui valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale, Moro lo definì una «felice convergenza delle concezioni solidaristiche cristiane con le concezioni di solidarietà sociale di cui sono portatrici le forze socialiste e comuniste»1.
Perciò nel commento al voto finale sulla Carta, intervenuto quando ormai era cominciata la guerra fredda, respingeva l’idea della divisione fatale del mondo in due campi contrapposti, auspicando la salvaguardia degli «spazi di diversità» che avevano reso possibile il patto costituzionale nella «speranza» che la guerra fredda si rivelasse solo una parentesi2. Non sorprende, dunque, che Moro divenisse il leader della Dc quando l’inizio della distensione internazionale pose fine al decennio più aspro dello scontro fra i due blocchi.
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È un paradosso solo apparente che Moro abbia affidato lo sviluppo dei suoi pensieri sullo Stato alle motivazioni della sua politica. Egli fu, fin dalla prima legislatura repubblicana, un politico in atto. Il suo pensiero veniva comunicato principalmente attraverso la parola. Quindi la sua concezione dello Stato democratico si articolò nei discorsi che preparavano l’apertura a sinistra. Egli lo definisce «lo Stato del valore umano» e se questo voleva dire riconoscere e garantire «il prestigio di ogni uomo», insito nella sua libertà, essa doveva essere congiunta alla «dignità», che si esprime nella «spinta» alla «espansione» e alla «partecipazione dei beni del mondo». Ne discende una concezione del pluralismo sociale che non è dettata dall’urgenza di prevenire i rischi delle lotte di classe, ma definisce il limite della politica stessa, che per unificare il molteplice deve porre i singoli individui e i gruppi sociali su un piano di parità morale. La visione dello Stato democratico come unità dialettica di società politica e società civile è figlia di un’epoca in cui le domande di libertà ed eguaglianza sgorgano dall’avanzare di una società civile mondiale e lo Stato, per condurle a sintesi, deve proporzionare le risorse politiche limitate di cui dispone ai processi internazionali che le possono accrescere, facendo emergere il contrasto irriducibile fra lo Stato democratico, aperto alla collaborazione internazionale più vasta, e lo Stato totalitario, fondato sull’autarchia.
Unità del molteplice e a sua volta uno fra molti, «lo Stato democratico ha la vocazione della pace ma soprattutto la vocazione dell’intesa e del lento fecondo dibattito» che lo vivifica. «Lo Stato democratico si definisce dunque anche al suo confine in ragione della sua capacità di superarlo».
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Quando Moro enunciava questi pensieri si era agli albori della distensione internazionale e al culmine della sfida globale del comunismo. Ma l’ispirazione cristiana della sua visione della democrazia alimenta un fondato ottimismo sulla possibilità di raccogliere vittoriosamente quella sfida. Moro ha difronte l’unico partito comunista che avesse partecipato alla fondazione di una repubblica democratica conforme ai principi del costituzionalismo europeo. Ha di fronte Togliatti, che favorisce l’evoluzione del quadro politico italiano pur sapendo che la prospettiva del governo resterà preclusa al suo partito. Il confronto col Pci è quindi impostato in chiave di lotta per l’egemonia, che non esclude, anzi intende favorire l’evoluzione dell’avversario.
Nei primi tempi del centro-sinistra si diffuse un paragone fra Moro e Giolitti; ma, a mio avviso, esso non regge. Giolitti si muoveva nel solco crociano del riconoscimento del socialismo come nuovo protagonista della vita sociale che però non poteva ambire all’egemonia poiché la sua ideologia non aveva la dignità di una filosofia. Era un’impostazione da primo Novecento, quando il socialismo, nella sua rapida progressione, non aveva ancora dimostrato la capacità di sfidare la civiltà liberale. Il mondo di Aldo Moro è tutt’altro, anche perché il comunismo è un attore politico globale che si presenta come un nuovo protagonista della storia delle libertà. Tornando, dunque, all’Italia, Moro affida la sua strategia politica alla capacità di dimostrare che la Dc non è «il partito di fiducia della borghesia», secondo l’insidiosa definizione di Togliatti, ma un grande partito popolare e nazionale.
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Questa qualificazione evocava l’esperienza dell’antifascismo. Com’è noto, l’antifascismo non aveva riguardato solo la storia d’Italia, ma i caratteri del nuovo ordine mondiale generato dalla guerra che successivamente, con la cristallizzazione del bipolarismo fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, avrebbe imposto due diversi principi di legittimazione: l’antifascismo come criterio di legittimazione democratica e l’anticomunismo come paradigma della legittimazione a governare. Per la Dc degasperiana, partito di ispirazione cristiana la cui laicità era favorita dalla recente apertura della Chiesa alla democrazia, l’unità politica dei cattolici e l’ispirazione antifascista erano garanzia di primato del cattolicesimo democratico. Si è detto con acume che Moro era «il più degasperiano dei dossettiani». La sua interpretazione della formula degasperiana del «Partito di centro che cammina verso sinistra» si riassume nella visione del centro-sinistra come proposta politica più idonea a guidare il progresso della nazione italiana. Per Togliatti l’antifascismo era stato il paradigma della conciliazione fra classe e nazione. Per Moro, come per De Gasperi, il problema principale fu quello di neutralizzare le forze della destra reazionaria, molto influenti nella storia d’Italia, ridefinendo i confini dell’unità popolare. Questa impostazione, che rendeva cogente un confronto permanente col variegato mondo del movimento operaio, incontrava un problema fondamentale: la divisione delle forze riformatrici fra governo e opposizione che rendeva più fragile l’unità della nazione. Moro formulò la visione più compiuta dell’antifascismo democristiano celebrando a Bari il trentennale della Liberazione. Il momento politico era caratterizzato dalla sconfitta della «strategia della tensione» grazie alla risposta articolata e alla mobilitazione popolare che le forze antifasciste avevano messo in campo nell’ultimo triennio. Ma il suo discorso aveva un respiro storico tutt’altro che contingente, in quanto riportava la definizione dell’unità popolare della nazione italiana ai caratteri della Resistenza e della guerra di Liberazione. Grazie soprattutto ai partiti antifascisti, argomentava Moro, nel corso di trent’anni «si sono conciliati alla democrazia ceti tentati talvolta da suggestioni autoritarie e chiusure classiste» e «grandi masse di popolo (…) oggi garantiscono esse stesse quello Stato che un giorno consideravano con ostilità quale irriducibile oppressore». «Il nostro antifascismo», quindi, affermava in conclusione, «non è solo un dato della coscienza, il risultato di una riflessione storica; ma è componente essenziale della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa (…) conservazione e reazione».
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Il centro-sinistra fu sconfitto nelle elezioni politiche del 1968, ma se vogliamo seguire il filo dei pensieri di Moro fino al Memoriale scritto nella “prigione del popolo”, il progetto riformatore che avrebbe dovuto completare l’attuazione della Costituzione era franato nel ’64 per l’effetto concomitante della insufficienza di risorse riformistiche nel sistema economico italiano e delle rigidità della «democrazia bloccata». Questo aveva isterilito la vita della Dc, divenuta, secondo Moro, un castello munito in cui si erano rifugiati gruppi di potere che non intendevano rinunciare ai loro privilegi. Moro ebbe quindi una straordinaria intuizione del Sessantotto come occasione per far rivivere i valori del cattolicesimo democratico. Se la seconda guerra mondiale aveva fatto rinascere lo Stato nazione europeo, la sua crisi, riemersa nel ’68, scaturiva da un mutamento radicale dei processi di globalizzazione. Nel ventennio precedente essi erano stati appannaggio delle classi dirigenti, ora passavano nelle mani dei popoli in Occidente e in tutto il mondo. Quindi,
parlando al Consiglio nazionale del suo partito, il 21 novembre 1968, Moro affermò:
Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai (…). L’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscono nella società in cui sono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità (…). Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia (…), un modo nuovo di essere della condizione umana.
Questa intuizione apriva la strada ad una rifondazione della democrazia, ma poneva il problema del suo fondamento universalistico e Moro ne rilanciava le radici cristiane. Il doppio movimento di una globalizzazione dall’alto e dal basso sembra quindi annunciare il tempo del ricongiungimento della politica con la morale10.
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Questa visione ispirò la politica internazionale di Moro quando, fra il 1969 e il 1974, ricoprì ininterrottamente il ruolo di ministro degli Esteri. Erano anni di promettenti sviluppi della distensione internazionale, ma anche di consolidamento del bipolarismo USA-URSS che conseguiva una stabilizzazione degli equilibri internazionali feconda di risultati nella riduzione degli armamenti e nella ricerca di soluzioni delle crisi internazionali più gravi, a cominciare dalla guerra del Vietnam. Lo scenario globale appariva favorevole all’affermazione dell’Europa, dove si sviluppavano con successo la Ostpolitik di Willy Brandt e del Vaticano, incentrata sui diritti umani. Moro vi inserì un’efficace iniziativa dell’Italia, di cui potrò richiamare qui solo alcuni capisaldi. Lo slancio con cui aveva annunciato i “tempi nuovi” lo conduceva ad affermare dalla tribuna dell’XI Congresso della Dc (29 giugno del 1969):
Sulla soglia della politica internazionale non ci si arresta più con una sorta di rassegnato fatalismo come si fosse di fronte ad una dura necessità, ma ci si impegna, pur con i doverosi accorgimenti della prudenza e del realismo, per fare semplicemente, della legge morale un criterio di azione politica a tutti i livelli11.
L’ascesa della Cina, che reclamava il riconoscimento del ruolo globale che le aspettava, limitava l’efficacia delle politiche di stabilizzazione bipolare; ma secondo Moro il multipolarismo che ormai caratterizzava la struttura del mondo creava la possibilità di approfondire la distensione in Europa senza rischi per le prerogative delle due maggiori potenze. Ferma restando la ragion d’essere dei blocchi militari fino a che non si fosse creato un clima di fiducia generale necessario per risolvere politicamente crisi e conflitti regionali, «non è immaginabile, affermava, allo stato della nostra cultura e del nostro sviluppo morale, che la pace del mondo possa essere per sempre affidata all’equilibrio del terrore e al bilanciamento delle potenze in campo». La politica estera dell’Italia doveva quindi «operare per il superamento dei blocchi militari, per la loro contemporanea ed equilibrata dissoluzione». Essa faceva tutt’uno con la politica estera della Comunità europea e se l’Europa non aveva ancora raggiunto un grado di unità sufficiente per far valere il suo progetto di distensione, Moro sentiva che stavano «maturando i tempi per una sorta di costituente politica dell’Europa», prefigurandone il futuro di «potenza civile» capace di esercitare un’influenza globale13.
Assunto l’incarico di Ministro degli Esteri, egli espose compiutamente la sua «dottrina della pace» all’Assemblea dell’Onu l’8 ottobre del 1969, collegando la soluzione dei conflitti internazionali alla «riduzione per via politica dei molteplici squilibri (…) che interessavano le diverse regioni di un mondo sempre più integrato e interdipendente». Quindi sostenne con forza la necessità di dotare l’Onu di «dispositivi efficienti per le operazioni di mantenimento della pace e della sicurezza». Guido Formigoni ha riassunto efficacemente la sua visione nell’obiettivo di una «interdipendenza strutturata, che prendesse il posto della mera politica di potenza». In questa prospettiva si impegnò tenacemente nella nascita della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea, che tenne a battesimo presiedendo il Consiglio Atlantico del maggio del 1970. Ma già nel febbraio ’71, incontrando insieme a Emilio Colombo, Richard Nixon e Henry Kissinger a Washington all’indomani della vittoria di Unidad Popular in Cile, dovette riscontrare l’aperta ostilità dell’Amministrazione americana verso l’apertura al «confronto» col Pci che prospettava già da due anni. Tuttavia i progressi della distensione bipolare incoraggiavano la sua visione della coesistenza europea, mentre il clima cominciò a mutare rapidamente con la fine del sistema di Bretton Woods, la guerra dello Yom Kippur e l’appoggio americano al colpo di Stato in Cile. Il ’73 fu l’anno delle maggiori tensioni fra il progetto di distensione europea e la visione kissingeriana dell’ordine mondiale, condivisa anche da Mosca, e nel 1974, con l’uscita di scena di Willy Brandt, gli Stati Uniti riaffermarono la loro leadership globale associandovi la Germania di Helmut Schmidt e la Francia di Valery Giscard d’Estaing in una prospettiva che escludeva un ruolo autonomo dell’Europa. La Csce si sarebbe conclusa l’anno dopo, a Helsinki, con un avanzamento significativo della distensione, ma con un unico registro a egemonia americana, valido per tutto l’Occidente, mentre Moro, tornato alla presidenza del Consiglio, affrontava la crisi più acuta della politica italiana.
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I “tempi nuovi”, di cui Moro aveva parlato nel ’68, erano densi di novità anche nel nostro Paese. La vittoria del Pci nelle elezioni politiche e la conseguente crisi del Partito socialista unificato decretarono la fine del centro-sinistra, mentre il Pci, con la condanna dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia, aveva compiuto un significativo gesto di autonomia da Mosca. In autunno cominciava un ciclo di mobilitazione sociale destinato a svilupparsi impetuosamente, dai diritti sociali ai diritti civili, per quasi un decennio, mentre il dissidio cino-sovietico si sarebbe trasformato a breve in uno scontro militare che sanciva la fine del movimento comunista internazionale. Infine, le prime sconfitte americane in Vietnam e gli orientamenti dell’amministrazione Nixon preannunciavano revisioni significative della strategia globale degli Stati Uniti. In estrema sintesi, entravano in crisi equilibri internazionali che avevano garantito un ventennio di stabilità di cui l’Italia s’era giovata particolarmente, mentre emergeva al suo interno la crisi del sistema politico. Intervenendo all’XI Congresso della Dc, il 29 giugno 1969 Moro ripropose la formula di centro-sinistra ma, introducendo una novità decisiva rispetto al decennio trascorso, prospettava alla Dc e ai suoi alleati la possibilità di impegnare il Pci in un «confronto» costruttivo. In altre parole, faceva cadere la delimitazione pregiudiziale della maggioranza a sinistra e sfidava il Pci a misurarsi propositivamente con il governo dall’opposizione. In prospettiva storica, era il modo concreto di porre al centro dell’agenda il tema della «democrazia bloccata» come grande questione della politica nazionale che interpellava tanto le forze di maggioranza quanto l’opposizione di sinistra. Il «confronto» si fondava sul riconoscimento della legittimazione democratica del Pci, – «un’inquietante e problematica presenza nella vita nazionale e internazionale» lo definiva Moro – grazie anche all’influenza reciproca sviluppatasi fra i due maggiori partiti in più di trent’anni di vita repubblicana:
Non si pensi che il Partito comunista eserciti, nel gioco democratico, una sua influenza, senza essere a sua volta influenzato; esprime cose significative, che, nelle loro sensibilità e funzione, le forze di governo a loro volta esprimono16.
Ma soprattutto sfidava il Pci a conseguire una piena autonomia da Mosca e a dimostrare che un «socialismo dal volto umano», represso poco meno di un anno prima a Praga, fosse possibile17.
Per comprendere le ragioni più urgenti per cui Moro riteneva indispensabile sciogliere il nodo della «democrazia bloccata» conviene soffermarsi sul discorso pronunciato al Consiglio nazionale della Dc due mesi dopo la clamorosa sconfitta subita dal partito nel Referendum sul divorzio. La fine del sistema di Bretton Woods aveva effetti dirompenti sull’Italia e Moro, operando per riportare il suo partito alla politica di centro-sinistra, denunciava una vera e propria emergenza nazionale che esigeva una coesione del Paese non conseguibile senza il coinvolgimento del Pci:
La posta in gioco è la nostra esclusione dal novero dei protagonisti dell’economia e della politica mondiale, il nostro ripiegare verso una forma anacronistica e asfittica di autarchia, principio di impoverimento e di decadenza.
Quindi, polemizzando con la proposta del «compromesso storico», proponeva «uno sforzo di solidarietà nazionale» invocando con fiducia il sostegno dei partner europei. Inoltre, avvertiva che la crisi degli anni ’70 investiva tutte le democrazie occidentali:
L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca.
Tuttavia, tanto il quadro internazionale, quanto la situazione italiana, subivano una rapida accelerazione. Dopo il Convegno mondiale sull’energia, promosso da Kissinger, la Conferenza di Rambouillet segnò la nascita di un asse franco-tedesco che dimostrava all’Amministrazione Ford di saper gestire, insieme alla Gran Bretagna, crisi acute come quella portoghese ampliando l’integrazione europea; mentre in Italia le elezioni regionali del maggio 1975 facevano registrare un balzo del Pci e una dura sconfitta della Dc e del Psi. Lo straordinario successo elettorale dei comunisti indusse il segretario del Psi Francesco de Martino a dissociare il suo partito dalla formula di centro-sinistra. Cominciava, disse Moro, una «terza e difficile fase» dell’«esperienza» democristiana, in cui avvertiva il suo partito che «l’avvenire non è più in parte nelle nostre mani»21. Quindi, inaugurando la Fiera del Levante, richiamò tutti i partiti del centro-sinistra alle loro responsabilità:
Tocca alle forze politiche pronunciarsi su un qualche modo di associazione del Partito comunista, in presenza di quelle ragioni di diversità che abbiamo altre volte evocato.
Ma il riallineamento dei socialisti non era motivato da una convergenza strategica col Pci, bensì dall’intenzione di spostarlo sul terreno della «alternativa di sinistra» alla Dc. Quindi De Martino provocò la crisi del governo Moro-la Malfa e elezioni anticipate che sfociarono nella «duplice vittoria» del 20 giugno 1976. Si determinava una crisi di governabilità che gettava allarme sia a Ovest che a Est esasperando le rigidità del vincolo esterno. Poco dopo le elezioni, il vertice di Puerto Rico poneva come condizione per la concessione di un prestito del FMI necessario a fronteggiare il debito del Paese, l’esclusione del Pci da qualunque combinazione di governo. Dalla nuova collocazione di Presidente del Consiglio Nazionale della Dc, Moro continuò ad operare per sciogliere il nodo della «democrazia difficile». Il governo monocolore guidato da Giulio Andreotti si reggeva sull’astensione dei partiti dell’«arco costituzionale». Risolta con un’efficace manovra di rientro l’emergenza economica, alla fine del 1977 si pose il problema di un nuovo monocolore concordato con tutti i partiti che sostenevano il governo in carica. Sciogliere il nodo della «democrazia bloccata» diventava urgente e Moro riuscì a far accettare ai gruppi parlamentari del suo partito l’ingresso del Pci in una maggioranza di programma che avrebbe votato la fiducia ad un nuovo governo monocolore Andreotti proprio il giorno del suo rapimento. Quali sarebbero potuti essere i passi successivi per giungere al traguardo di una democrazia dell’alternanza? I documenti più significativi di cui disponiamo dimostrano che Moro riteneva che il Pci potesse portare a termine il percorso di autonomia da Mosca, ma aveva bisogno di tempo. Il suo coinvolgimento nella maggioranza ne avrebbe accelerato il cammino, creando le condizioni per giungere a nuove elezioni -dopo l’avvicendamento di Leone al Quirinale- impostate sul riconoscimento reciproco fra Dc e Pci della legittimazione a governare. Il superamento della democrazia bloccata si fondava quindi sul riconoscimento del ruolo democratico e nazionale svolto dal Pci dalla Resistenza in poi e sulla sfida a sviluppare la sua autonomia fino al punto di far cadere le pregiudiziali americana ed europea al suo ingresso nel governo. La legittimazione del Pci era una questione di portata internazionale. Con il suo coinvolgimento in una maggioranza di programma la Dc aveva fatto quanto era nelle sue possibilità per avvicinare il traguardo. Spettava al Pci portare a compimento il suo percorso d’autonomia in modo da convincere i Paesi alleati a cambiare atteggiamento. Quanto fosse realistica la strategia di Moro, resa peraltro cogente dagli sviluppi della situazione italiana, è un problema storico che sarebbe arduo discutere qui. Possiamo tuttavia condividere le dolorose conclusioni di Formigoni che con il rapimento e l’assassinio di Moro «forse si perdette l’ultima opportunità per una rifondazione della democrazia parlamentare in senso convergente e non contrastante alle spinte sociali in quegli anni tormentati. E in questa prolungata agonia, è rimasto il segno di una tragedia che non ha avuto la sua catarsi».
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